Uscita: UK: 22.11.1968 - USA: 25.11.1968 Italia: 11.11.1968
Prodotto da George Martin
Etichetta: Apple
Casa discografica: EMI
Il disco noto a tutti come “the White Album”, viene inciso nell’estate del 1968. Nonostante non fosse passato neanche un lustro dal periodo della Beatlemania, sembrava di vivere in un altro secolo. Anche l’abbaglio luccicante della psichedelia, scoppiata prepotentemente nell’estate del 1967, “the Summer of Love”, mostrava le prime crepe e all’acido che allargava l’orizzonte della mente, si stava passando all’eroina dei Velvet e allo sballo delirante reso celebre da Al Pacino di Scarfaciana memoria, della cocaina. Gruppi come Led Zeppelin, Deep Purple e Black Sabbath si apprestavano a ridisegnare con un metallo più pesante le gerarchie nel mondo del rock. Piu in generale il maggio del sessantotto, la rivoluzione poi stroncata con i carri armati di Praga, segnavano un anno che sarebbe rimasto nella storia. I Beatles arrivavano a quell’estate avendo incassato il loro primo flop della carriera. Magical Mystery Tour, film girato per la TV inglese e messo in onda la notte di Natale del ’67, era risultato indigesto ai più. Dopo la controversa spedizione indiana a Rishikesh in meditazione trascendentale, nell’aria respirata dai quattro baronetti si percepiva un sottile senso di sgretolamento che sarà vistosamente presente nelle tracce dell’album bianco.
Parliamo dunque di ciò che, a mio giudizio, risulta essere il miglior album del più grande gruppo musicale all time. Uscito nel novembre del 1968, The Beatles, è un doppio album, l’unico tra quelli usciti mentre il gruppo era ancora insieme. Il titolo, ononimo e anche un po’ anonimo, è dovuto all’involontario scippo dei Family, gruppo inglese che pubblicò nell’agosto di quell’anno il loro LP di debutto intitolato “Music in a Doll’s House”. I quatto ragazzi di Liverpool avrebbero voluto chiamare il loro “A Doll’s House”. Inutile dire che questo titolo avrebbe decisamente reso l’idea di ciò in cui l’ignaro ascoltatore si sarebbe trovato immerso. Invece anche la copertina, spiazzante dopo l’indigestione di colori e immagini a tinte forti delle ultime opere d’influenza lisergica, completamente bianca, non aiutava a prevedere l’impasto di emozioni contrastanti inserite nell’opera. Trenta pezzi, 30 bamboline che si tengono per mano, grazie ad una seduta fiume di ventiquattrore in sala d’incisione durante la quale John, Paul e George Martin riuscirono a nascondere ruggini e contrasti, sfociati anche in un paio di risse, del gruppo, facendo scorrere sapientemente nel miglior modo possibile l’incastro musicale.
I brani:
Back in the USSR: rock classico che fa ironicamente il verso con il dovuto rispetto, a Chuck Berry e alla sua Back in the USA. McCartney canta ispirandosi a Elvis, il risultato è all’altezza.
Dear Prudence: uno dei tanti pezzi dell’album dove i Beatles, in questo caso John Lennon, mettono a frutto la tecnica del fingerpicking, insegnata loro da Donovan nei lunghi pomeriggi indiani, dove la mancanza di corrente elettrica aveva spinto i nostri a fare largo uso di chitarre acustiche. Il pezzo è dedicato alla sorella di Mia Farrow che sempre in India venne fatta oggetto delle attenzioni del Santone, il quale in quel caso, non si può proprio dire si sia comportato da sant’uomo.
Glass Onion: ancora John, sarcasticamente lancia molteplici tracce ai maniaci sempre in cerca di nuovi elementi che potessero incastrarsi nella fantasiosa versione sull’ipotetico incidente mortale accorso a Paul. Questo macabro scherzo si rivelò in tutta la sua tragicità quando Lennon si trovò faccia a faccia con un invasato di primo livello nel 1980.
Ob-La-Di-Ob-La-Da: uno dei pezzi che fece venire voglia a John di lasciare i Beatles. Il brano è oltremodo famoso, Paul pretese ore e ore di lavoro in sala prove mettendo a dura prova la pazienza dei compagni. La grandezza di McCartney viene minata a volte dalla sua voglia di creare motivetti orecchiabili fini a se stessi.
Wild Honey Pie: se volete smascherare qualche pseudo esperto dei Fabfour, sottoponetelo all’ascolto di questo brano a tradimento, chiedendogli se sa di chi è, il test è probante. Paul McCartney in versione autorionica.
The continuing Story of Bungalow Bill: John Lennon in questo album ne ha per tutti, in questo caso prende di mira un cacciatore bianco conosciuto in Africa, ridicolizzando, con l’aiuto dell’irritante vocina di Yoko Ono, il mito degli amanti della caccia grossa.
While my Guitar Gently Weeps: primo brano di Harrison dell’album, dolce ballata di cui esiste anche una splendida versione acustica. Qui si può ascoltare il tocco di Eric “Slow Hand” Clapton che ci delizia nell’assolo finale.
Happiness is a warm Gun: Lennon era come una spugna, non solo al bar, riusciva ad assorbire ogni cosa rielaborandola da par suo. In questo caso, il titolo prende spunto da una pubblicità della Rifle Association, il sarcasmo è sparso a piene mani, specie nei coretti finali. Il brano vide i 4 sostenere un notevole sforzo nell’eseguire a dovere un pezzo piuttosto complesso per le loro limitate doti tecniche.
Martha my Dear: questa dolce canzoncina in tipico McCartney style, fu da lui scritta per la sua cagnolina. E’ l’apertura del lato B, il viaggio riprende rimanendo ad altezze notevoli.
I’m so tired: indicata spesso come il seguito di I’m only sleeping presente su Revolver, contiene una spassosa invettiva allo scopritore del tabacco, le corde vocali di Lennon emanano sensazioni da pelle d’oca in un interpretazione come sempre impeccabile.
Blackbird: Paul voce, chitarra acustica e ritmo tenuto con il battito del piede, usa a piene mani del fingerpicking, se amate il genere, chiudete gli occhi e lasciatevi cullare dolcemente.
Piggies: George Harrison è il Beatles meno famoso, ricordato come colui che portò nel gruppo l’influenza orientale, la meditazione, la pace e la tranquillità, in realtà aveva semplicemente poca voglia d’immischiarsi nelle beghe quotidiane e ancor meno considerazione del volgo. In questo brano non risparmia il vetriolo, basti pensare che, insieme ad Helter Skelter, verrà citato da Charles Manson come brano che lo ispirò per le sue stragi.
Rocky Raccoon: scherzo in stile western questo è uno dei tanti brani che, se l’armonia del gruppo lo avesse reso possibile e i consigli di George Martin fossero stati ascoltati, sarebbe stato tagliato per arrivare ad un ottimo album singolo. McCartney riesce comunque a rendere piacevole anche questo divertissement.
Don’t pass me by: uno dei due pezzi di Ringo, in stile country, come piaceva all’uomo dai molti anelli, l’accompagnamento di tale Jack Fallon al violino lo rende ascoltabile.
Why don’t we do it in the road: se vi siete mai chiesti perché i Beatles erano i Beatles, anche la presenza di un brano come questo, cantato dalla stessa voce di quello che segue, vi darà la risposta. Come per gli alpini, anche per loro non esisteva l’impossibile. Questa sparata di pura adrenalina con messaggio neanche troppo velato, fu registrata da McCartney da solo, il quale suonò tutti gli strumenti, pare per ripicca, dopo non essere stato consultato durante la registrazione della delirante, Revolution n.9.
I will: come detto sopra, canta Paul McCartney, voce vellutata, melodia accattivante, parole mielose, si è proprio lui.
Julia: dedicata alla madre, il testo viene letto da molti come la testimonianza del passaggio di consegne nel cuore di John dalla compianta mamma a Yoko, Peace & Love. L’arpeggio è sempre dovuto agli esercizi indiani, la furia si è momentaneamente calmata, Lennon sa anche essere dolce.
Birthday: l’apertura della terza facciata ci riporta nel repertorio rock, il tentativo di approcciarsi alle nuove sonorità non pare riuscitissimo, ma la voce di McCartney, come al solito, spacca.
Yer Blues:anche la nuova ondata di blues britannico, non sfuggì alla pungente ironia di Lennon. Il testo sembra scritto da un Leopardi depresso, la musica è blues classico un po’ inacidito dall’assolo.
Mother Nature’s sun: McCartney acustico in versione figlio dei fiori ci porta a fare un giro per le campagne inglesi.
Everrybody’s got something to hide except me and my monkey: il brusco risveglio è solo sonoro, infatti si passa dal tedioso pomeriggio assolato di campagna ai suoni schizofrenici alle grida e agli schiamazzi di un Lennon disposto a giocare con le parole e i doppi sensi.
Sexy Sadie: la rabbia per la pseudo truffa indiana venne incanalata da Lennon in questo brano a cui fu costretto a rimettere mano al testo per evitare una querela. La canzone ti avvolge in continui sali scendi dove la voce effettata di John sa come farsi apprezzare.
Helter Skelter: definito da alcuni come il primo brano heavy metal della storia del rock è stato rivisitato da molti artisti nel tempo. In origine era un lunghissimo pezzo blueseggiante. Ridotto a versioni umane, è graffiante, ma gli Who, da cui McCartney prese ispirazione, erano un’altra cosa.
Long long long: George Harrison nella versione mistico meditabonda porta alla causa un pezzo intenso con un finale, nato da un evento accidentale, ma sfruttato al solito in maniera sublime dal gruppo di Liverpool.
Revolution 1: questa versione lenta, è l’originale dalla quale nacquero successivamente le altre due revolution pubblicate dai Fabfour. Il testo, a discapito del titolo, mostra una posizione piuttosto riflessiva e poco propensa all’azione rispetto ai tumulti dell’epoca. Lennon, che cantò sdraiato a pancia all’aria in sala d’incisione per produrre il suon di voce rilassato che desiderava, era piuttosto critico rispetto alle rivoluzioni violente. I suoi successivi impegni pacifisti presero maggior vigore proprio a partire da quel periodo.
Honey Pie: ancora una volta McCartney cade nella tentazione di ripescare un genere anteguerra. Fortemente influenzato dal passato musicale del padre, il brano è come sempre confezionato con buon gusto, naturalmente il vecchio Paul ci ha abituati a bel altro.
Savoy Truffle: il testo fu scritto da George per elencare i vari tipi di cioccolatino di cui era accanito consumatore l’amico Clapton. Riempitivo gradevole di rock fine anni sessanta.
Cry baby cry: questa filastrocca tipicamente Lennoniana nel suo incedere ipnotico concilia il sonno, anche grazie ad un arrangiamento decisamente scarno.
Revolution 9: l’eventuale abbiocco raggiunto con il precedente pezzo, potrebbe trasformarsi nel peggiore degli incubi durante l’ascolto di questo aggrovigliato esperimento d’avanguardia musicale. Giusta risposta a chi parla dei Beatles come di un gruppo prettamente commerciale.
Goodnight: molti caddero nell’equivoco di accreditare a McCartney questa avvolgente ninna nanna che fa riemergere l’ascoltatore con un rassicurante intro orchestrale dalle paludi di revolution 9. Eppure l’autore è sempre lo stesso John Winston Ono Lennon, genio e sregolatezza. La voce è quella di Ringo. Il timbro è quello dei Beatles. Unici e inimitabili, ieri, oggi e per sempre.